A tu per tu con Emanuele Dotto. “Ibra a Sanremo… Perché?”

Domani sono quindici giorni dalla proclamazione dei Maneskin vincitori della 71esima edizione del festival della canzone italiana. È stato un festival sui generis, il primo senza pubblico all’Ariston, ma riempito dalla presenza ingombrante e sovrabbondante di Zlatan Ibrahimovic. Ne abbiamo parlato con chi Sanremo lo ha vissuto in lungo e in largo, come inviato pluriennale della kermesse. Si può dire, infatti, che Emanuele Dotto, alessandrino di tifo ma genovese di nascita, lo conosca come le sue tasche


di Luca Savarese

Emanuele, nel 2008 hai ricevuto anche un premio al Casinò di Sanremo: tanti anni al microfono delle vicende sanremesi?

“Sì, anche perché, essendo ligure, Sanremo è un po’ la porta d’accesso del divertimento per chi si diverte giocando al Casinò; è una città molto bella, che rispecchia la chiesa ortodossa costruita dai magnati russi prima della Rivoluzione d’ottobre. Quest’anno, è stato un Festival blindato, chiuso, poche passerelle, poca gente, ma è già importante che abbia tagliato il traguardo delle 71 edizioni, perché a un certo momento, si poteva pensare a un rinvio o a una cancellazione. In seguito, un po’ la Rai, un po’ il Comune e il Casinò e grazie alla forza stessa del Festival, si è potuta fare questa kermesse dove se la sono cantata e suonata Amadeus e Fiorello: un Sanremo diverso, meno unto e bisunto, è un periodo di magra, siamo in quaresima, ma più o meno siamo sempre in quaresima da un anno a questa parte”

Ma Ibra a Sanremo è stato un azzardo da Casinò un caso di presunzione, quasi un delirio di onnipotenza alla Nietzsche?

“Io sono rimasto molto perplesso, quando si fanno queste trovate, rimango abbastanza sconcertato, l’anno scorso Ronaldo con la moglie, quest’anno Ibra, non so, non mi sembra un grandissimo modello, è un ragazzone simpatico, però preso a piccole dosi, non mi sembra un tizio da proporre all’attenzione pubblica come riferimento a cui ispirarsi, è fortissimo, ha fatto tanti gol, ma per quanto mi riguarda, i modelli, sono altri. C’era una battuta di Boskvov, il grande labbro di Novi Sad, che trovo strepitosa: ‘lui ha testa per portare cappello’ e credo che calzi a pennello per Ibra e per la sua testa”.

“Forse si poteva tentare una partecipazione con gli Abba ma lui, è fino in fondo croato. E’ stata una scelta che rispettiamo, ma anche questa polemica con Lebron mi ha lasciato molto di stucco, da tenere magari confinata al basket, molto campata per aria, anche la vicenda con Lukaku, che mi segnalano come persona eccezionale, che ha imparato l’italiano quando il fratello giocava nella Lazio e lui ne seguiva le partite; un ragazzo di un paese sfortunato come può essere l’ex Zaire e attuale Congo Belga, dove ci furono tredici aviatori italiani morti trucidati nell’eccidio di Kindu dalle milizie locali nel 1961 e dove c’è stato il tragico fatto dell’ambasciatore e dell’autista uccisi qualche settimana fa a Goma. I personaggi sono quelli ed il calcio vive di quello. Mi sfuggono anche i motivi di scegliere Ibra, che valore aggiunto ha potuto dare?”

“La sua personalità è buona quando è sprone per i compagni, ma può diventare dannosa quando è prevaricazione: menomale che si è infortunato, se mollava il calcio così alla leggera, per andare a Sanremo, chissà cosa sarebbe successo, ma che mondo è? Ma gli italiani, ora come ora, hanno altri problemi cui pensare. Io, avrei portato Federer e lo avrei fatto palleggiare con quelle due ragazze che palleggiavano dai tetti di Finale Ligure, aveva una valenza ed una risonanza inerente a quello che stiamo vivendo e di più largo respiro”.

Tu, e prima di te Sandro Ciotti, ci avete mostrato come lo sport e la musica abbiano in fondo lo stesso minimo comune denominatore, cioè quello di cercare di dare una carezza, che in questo periodo storico è diventata anche un abbraccio?

“Direi di sì, effettivamente Quella carezza della sera come cantavano i New Trolls nel 1978 ed è per questo che mi lascia curioso la scelta di Ibra, che più che essere una carezza è una sorta di schiaffo; sì, è uno forte, è una bestia fisicamente, che ha sofferto parecchio, perché non sarà facile ambientare un ragazzone croato in un paese, come la Svezia, molto rigido e poco ridanciano. Viceversa, la canzone italiana ha sempre cercato di allietare l’Italietta del boom economico. Sanremo nasce nel 1950 e si è rivelato un rito pagano – laico, è stato lo specchio, abbastanza fedele, del nostro paese. Ha avuto alti e bassi, i primi anni Sessanta con la morte improvvisa di Luigi Tenco, molto amico di Sandro Ciotti, poi a metà degli anni 70, quando vinsero gli Homo sapiens, con Bella da morire nel 1977, ci fu solo una serata alla tv, quella conclusiva, il resto lo trasmetteva esclusivamente la radio, stava quindi scomparendo dai radar”.

“È stato rivitalizzato dalle grandi messe cantate da Pippo Baudo ed officiate da Mike e siamo arrivati a Fiorello ed Amadeus; il solco della tradizione è quello, tracciato, ma è una traccia che non entra in grande profondità, ci sono andati in molti, ma spesso mal volentieri, non si sono mai trovati benissimo fino in fondo i cantautori. 13 volte Mattia Bazar, 12 i Ricchi e Poveri, è l’Italietta alle vongole che nasce e celebra il rito sanremese. Ha fatto punti di share in meno, ma sono già tanti dentro la pandemia. Io, premetto, non ne ho visto neanche un minuto, molti cantanti non li conoscevo neppure, mi è bastata l’esibizione di Lauro dell’anno scorso, io sono ancorato a Lauro, l’armatore, quello del Napoli e di Jeppson, che era svedese come Ibra, ma totalmente svedese e non andava a Sanremo…”

Le poltrone vuote di questa edizione le abbiamo in un certo senso paragonate agli stadi vuoti, è stato anche un modo per desiderare di più quello che avevamo sotto gli occhi ma forse, non ce ne accorgevamo?

“Certo, perché Il problema era la voglia, il desiderio di normalità. La salute è un bene prezioso e tu te ne accorgi quando la perdi o quando qualcuno vicino a te ha un problema serio e rischia di partire per l’altro mondo, è il primo bene prezioso della terra, va protetto e preservato, ma a volte non ci si pensa e si fa un grande minestrone d’indifferenza, anzi, una cassoeula, ma la vita non è solo cavolo, è anche altro”.

Emanuele Dotto nasce a Genova, il 21 giugno, giorno di San Luigi, del 1952. Papà ferroviere e di fede granata, originario di Lerma, provincia di Alessandria, porta lui e il fratellino Matteo a vedere non solo le partite, ma anche le chicche storiche dei luoghi che ospitano gli incontri di calcio. Così per lui, andare a vedere una partita diventa prima di tutto andare a scoprire cosa il luogo in questione ha da offrire: insomma prima il campo della cultura, poi il rettangolo di gioco, atteggiamento che nella sua pluriennale carriera radiofonica sulle frequenze di Rai Radio 1, da Varese – Lazio, gennaio 1982, prima radiocronaca all’ultima tappa del Giro d’Italia 2019, a Verona, fa suo. Iconico in questo senso il racconto che intarsiò dell’antica Tessalonica, durante un Paok Salonicco – Udinese di Europa League: se qualcuno all’ascolto avesse dovuto sostenere un esame di storia greca, beh avrebbe trovato la strada spianata. Dotto si nasce certo, ma lo si diventa anche. Prima dell’assunzione in Rai, avvenuta nei primi anni 80, è stato firma del Corriere Mercantile e prima ancora vanta nel suo Palmares una Laurea in Storia medievale: scusate, se è poco.

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